Cultura

Articoli

  09 settembre , 2005       antonio.raimondi       Cultura   
Una sera

contadini su asinoUna sera nell’ora in cui l’ultima luce si distende tra i rami argentei degli ulivi saraceni e la solitudine avvolge la campagna e gli uomini con le prime ombre della notte, sì, in quell’ora in cui la mente cerca disperatamente il ricordo, mi aggrappai affascinato alle ultime immagini sfuocate di un sogno.

Correvo a piedi scalzi tra vento e silenzio, come un tempo lontano, per la mulattiera impolverata che dal camposanto s’inerpicava lungo la gola buia piena di pietrischi del canale Porta. Nella stessa ora le stesse ombre del crepuscolo si allungavano come un manto pietoso sulle prime case del paese già addormentato sulle fatiche degli uomini e delle bestie, quasi a volerne ricoprire come un ricamo di nuvole la lunga notte di meritato riposo.

Il cuore mi batteva forte nel petto affrontando la salita del canale, mentre il fioco scroscio dell’acqua tra il canneto e gli oleandri mi faceva volare lontano nell’infinito cammino dei miei pensieri , allontanandomi dall’oscurità della vita per farmi dialogare con il grande mistero dell’Amore . In lontananza un mare azzurro di incantate solitudini, i cui riflessi sussurranti malinconiche promesse si confondevano con la vista dell’argentea tinta delle foglie degli ulivi della collina di Broglio . Ad un tratto i rami delle macchie che lungo il sentiero mi accarezzavano i neri capelli e la sinfonia del vento che portava il fresco alito resinoso dei pini , mi parteciparono la dignitosa fatica del vivere, del nascere e del morire dei giorni e del crepuscolo della civiltà contadina, pregna di dolcezza e di sudori antichi. Ed ecco all’improvviso come nel sogno, scaturiti dal nulla, udii l’eco di passi ferrati che si avvicinavano.

Mi fermo per riprendere fiato e , seduto sul margine della mulattiera, osservo lo strisciare incerto di lucertole, formiche e lumache che vanno da un punto all’altro del sottobosco odoroso. Un attimo dopo scorgo i volti solcati da rughe profonde come canali e cotti dal sole di due vecchi contadini che assomigliavano nella loro solennità a dei campi arati in primavera. Asino e contadini camminavano teneramente accostati lungo il viottolo assediato dai rovi. Ultimi testimoni di una civiltà che andava scomparendo, con la mente che vagava nei ricordi delle antiche sere misteriose di profumi e di preghiere, camminavano leggeri ; e scrutando l’orizzonte interpretavano il tempo dal suono che faceva l’aria tra i rami di lentisco. Parlavano sottovoce con un sussurro che si perdeva nel vento tra gli ulivi carichi di seccume ed il loro narrare sembrava cercare il loro mondo che stava scomparendo. Il vecchio è a cavallo del suo asino grigio che porta sul basto una “ sàrma “ di legna; lei invece sorregge sulla testa una “ spòrta “ di olive nere.

Nelle lunghe pause del loro sommesso discorrere, il silenzio si posava sul silenzio del paesaggio intorno. Ogni tanto lui tirava la cavezza dell’asino ( hjisch’ ) per aspettarla ; e dopo che si erano un po’ riposati su uno spuntone di pietra, le confessava che era troppo vecchio e non ce la faceva più a potare i lunghi rami degli ulivi che ormai non rendevano. I virgulti inselvatichiti degli olivastri affogavano ormai i tronchi contorti ,scheletriti e rugosi. Lei per confortarlo e rasserenarlo gli sorrideva con dolcezza, mentre gli ultimi raggi dell’imbrunire si disegnavano sul suo volto velato di melanconia .Per farlo contento gli ricordava la fioritura degli ulivi di altri tempi che avevano un’aria sacra perché sfamavano tante famiglie ed in particolare l’ulivo più antico, il grande vegliardo ormai secolare che portava dieci tomoli di olive e ne usciva una macina di “ gùùgl’ “ (olio).Si racconta che i suoi rami raggiungevano la strada ombreggiandola per i passanti e cigolavano misteriosamente nelle notti di tramontana. Le loro foglie cantavano le nenie ai bambini appena nati , la cui culla rudimentale i genitori, per poter lavorare, appendevano ai suoi forti rami; nel folto della sua chioma gli usignoli recitavano ogni sera il rosario, mentre le tortore portavano i suoi teneri ramoscelli, la domenica delle palme, in voli ripetuti sulle tegole ocra del paese e poi ne facevano una mazzetto che lasciavano sulla porta delle case dei poveri .Qualcuno diceva che l’avessero piantato un giorno i micenei, perché vi riposassero sotto le sue radici i loro compagni morti.

ulivi

Sono due vecchi contadini che abitualmente stanno in una antica masseria in contrada “ Pùuzz’ gràann’ ”.Nessun posto per loro al mondo era così dolce. Davanti alla porta un mandorlo. Sui suoi rami si riposavano una schiera di colombi che raccoglievano il sole della sera. Coltivavano una terra aspra ma baciata dal sole dall’alba al tramonto. Solo l’ultima domenica del mese venivano in città per vendere le loro povere masserizie. Sono in corrispondenza col figlio in America, che è un ricco ed affermato professionista. Un giorno mi chiamarono per farmi leggere l’ennesima lettera arrivata da “ Nuovayork” dove con tanto amore suo figlio li invitava a volerlo raggiungere per trascorrere in una grande città la loro vecchiaia, confortati da una assistenza moderna. Mi fece sedere davanti al camino, dove ribolliva una” pjignàta “ di malva e fichi seccati che si preparava per la sua tosse. Chiamò la moglie che gli “ ‘mbrazzjcava” ( rattoppava) per l’ennesima volta i calzettoni di lana e mi raccontarono la loro storia. I pantaloni del vecchio erano sempre più rattoppati, mentre lei copriva il suo vestito consunto con un bel “sjinale” di “teritall “.E mentre lui frugava con il “ palettino “ tra la cenere e con la canna du’“ suvùulatur ”( soffietto ) cercava di ravvivare il fuoco quasi a farsi suggerire da quelle fiamme tra i “ zjippùnj “ ( ceppi ) la risposta ai pressanti inviti del figlio “ americano”. Ma lei , zj ‘Ntùnett’, quasi come un rimprovero e in un filo di voce, come se non volesse farsi sentire dal suo vecchio , farfugliava come in un delirio: ” E il giardino d’arance… e l’albero di noce…e le galline … e i “cchjiantòn’ “ ( piante ) di ulivi ? ” Poi un giorno il vecchio contadino , che quasi dopo tanta fatica assomigliava con le sue gambe arcuate ai suoi alberi di ulivi contorti, morì. Ma lei continuò a vivere con il moto perenne delle stagioni , confondendo la sua vita con gli alberi che amorosamente coltivava. Ed ogni sera si addormentava con il pensiero del marito, mentre fuori anche la sera si assopiva tra i rovi e le macchie di “ mùrzja “ (mirtillo) che circondavano la sua casa. La quiete della sua coscienza serena le faceva compagnia parlandole nei sogni del figlio lontano. Gli scrisse : ” Un giorno quando morirò vorrei che le mie ceneri come quelle di tuo padre fossero sparse ai piedi dell’eterno Ulivo, nel silenzio della sua ombra”.


Antonio Raimondi