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  08 giugno , 2012       piero.devita       Cultura   
LA CALABRIA DI PASOLINI

Pubblichiamo un interessante articolo del Prof. Leonardo Di  Vasto ( Presidente dell'Ass. Cultura Classica Roma-Atene) su Pier Paolo Pasolini e la Calabria

LA CALABRIA di PIER PAOLO PASOLINI


di
 

Leonardo Di Vasto


 

 

«Cara Maria,

ho ricevuto una letterina di tua cugina accompagnata da certe tue poesie, delle quali dovrei dare un giudizio. Ecco: nella loro dignità hanno ancora qualcosa di acerbo, o forse per troppo amore, di pasoliniano. Non è questo un male, naturalmente, ma lascia che la poesia maturi in te, trovi la sua stagione e poi, senza fretta, mandami i risultati. Intanto ti consiglio qualche poeta splendidissimo: Penna, Kavafis; il libro di Elsa Morante: Il mondo salvato dai ragazzini. Scrivimi quando vuoi

Pier Paolo Pasolini».

Così scriveva, cortese e paterno, Pasolini, nel novembre del 1970, a Maria Franco, poetessa calabrese, precisamente reggina, alle sue prime esperienze letterarie, e le suggeriva, per non rimanere ancorata al suo mondo poetico, l’opera di Sandro Penna, Costantino Kavafis, Elsa Morante. 

Pasolini conosceva la Calabria, sin dalla fine degli anni ’50: l’aveva percorsa in macchina da Reggio, lungo la costa ionica, per un reportage pubblicato nel mensile “Successo”.

«L’Ionio non è mare nostro: spaventa. Appena partito da Reggio - città estremamente drammatica e originale, di una angosciosa povertà, dove sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” - mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi sulla costa. Così circa fino a Porto Salvo. Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile. Vado verso Crotone, per la zona di Cutro. […] Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge. Dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia. […] intorno c’è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura».

            Questa Calabria pasoliniana  “che fa paura”, bagnata da un mare, l’Ionio, che “spaventa”, è una terra primitiva, arcaica, mitica. Tale primitivismo ti respinge e, a un tempo, ti seduce: i giovani sorridono, pur rientrando da un lavoro “atroce”, manifestando “un guizzo di troppa libertà”, che pare “pazzia”, perché quella libertà, essendo smodata, “troppa”, non rientra nei canoni della società borghese, con le sue regole, le sue leggi, la sua libertà. Quella, invece, è “fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo”.  

            Una Calabria simile appare nel componimento “Profezia”, scritto nei primi anni Sessanta: è la terra del ‘vuoto’, della ‘fame’, del ‘male’. Insomma, siamo di fronte a un mondo spettrale (“ Coltivate dalla luna, le campagne; “Le spighe cresciute per bocche di scheletri”), primitivo, che non ha conosciuto, l’agricoltura, le riforme, la lotta sindacale.

            Tuttavia, questa Calabria diviene la meta di “un figlio”, che ha dovuto lasciare la sua terra e che, pertanto, vive la sorte di “ogni oscuro contadino” calabrese che “aveva abbandonato / quelle casupole nuove / come porcili senza porci, / su radure color della fame”.

            Ebbene, costoro, umili, deboli, timidi, necessitano di dare uno sbocco alla loro condizione sociale senza prospettive, precaria. L’operaio di Milano rappresenta il loro ideale e lo “venerano”; ma questi è, ormai, senza ideali, senza, più, la volontà di cambiare il mondo, perché è stato risucchiato dai valori borghesi, sedotto dal consumismo, vivendo “tra frigorifero e televisione”: si è “modernizzato”. Pertanto, costui non sarà capace di smettere di lottare per il suo salario e di armare la mano dei calabresi, come dei tanti “Alì dagli occhi azzurri”, partiti da Algeri, “su navi / a vela e a remi, […] varate nei Regni della Fame”. Crotone e Palmi sono le prime tappe della loro odissea: i calabresi li riconoscono come loro fratelli accomunati da un destino maledetto di abbandono, di emarginazione, di miseria: portano “con sé i bambini, e il pane e il formaggio”.

             È sorprendente come Pasolini abbia ‘visto’, con anticipo di circa mezzo secolo, una situazione drammatica dei popoli gravitanti, in gran parte, sul Mediterraneo, aggrappati, disperatamente, alla speranza di cambiare il loro destino di condannati a una sub-esistenza o a morte. Non solo. Lo scrittore ha, pure, intuito il timore nutrito dall’Occidente di vedere la sua civiltà messa in crisi, insidiata, distrutta (“usciranno da sotto la terra per uccidere, usciranno dal fondo del mare per aggredire”). Il loro arrivo mette in discussione un’algida razionalità occidentale, non più in grado di appagare il sentire umano, l’anelito alla raccolta felicità, alla dolce sobrietà: infatti, essi insegnano “la gioia di vivere”, “a essere liberi”, “come si è fratelli”.

            Questa è la visione del mondo di Pasolini, che è dalla parte di costoro, che sono il nuovo, che sempre disturba. Il poeta è critico nei confronti di una “umanità adoratrice - come ha scritto Alfonso Berardinelli - di un benessere nichilistico e di una cieca religione del consumo”.

            Negli anni Settanta, il poeta dialogava, vivacemente, con Franco Fortini o con Elsa Morante, che aveva suggerito come modello letterario alla poetessa reggina: all’autrice de La Storia “avrebbe potuto dire - ha affermato ancora Berardinelli – che la Storia stava continuando i suoi delitti, ma che il mondo non sarebbe mai stato salvato dai ragazzini o dai ragazzi, perché la seconda e definitiva rivoluzione industriale li aveva divorati lasciando dei corpi senz’anima”.

             

 

  

Profezia

(A Jean-Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri)

Era nel mondo un figlio 

e un giorno andò in Calabria:

era estate, ed erano 

vuote le casupole, 

nuove, a pandizucchero, 

da fiabe di fate color 

della fame. Vuote.

Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne.  Le spighe cresciute per bocche di scheletri.

Il vento dallo Jonio

scuoteva paglia nera 

come nei sogni profetici: 

e la luna color della fame 

coltivava terreni 

che mai l’estate amò. 

Ed era nei tempi del figlio 

che questo amore poteva 

cominciare, e non cominciò. 

Il figlio aveva degli occhi 

di paglia bruciata, occhi 

senza paura, e vide tutto 

ciò che era male: nulla 

sapeva dell’agricoltura, 

delle riforme, della lotta 

sindacale, degli Enti Benefattori, 

lui - ma aveva quegli occhi.

Ogni oscuro contadino 

aveva abbandonato

quelle sue casupole nuove 

come porcili senza porci, 

su radure color della fame, 

sotto montagnole rotonde  

in vista dello Jonio profetico. 

Tre millenni passarono

non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano,  lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano?

Quasi come un padrone. 

Ti porterebbero su 

dalla loro antica regione, 

frutti e animali, i loro 

feticci oscuri, a deporli 

con l’orgoglio del rito 

nelle tue stanzette novecento, 

tra frigorifero e televisione, 

attratti dalla tua divinità, 

Tu, delle Commissioni Interne, 

tu della CGIL, Divinità alleata, 

nel sicuro sole del Nord.

Nella loro Terra di razze 

diverse, la luna coltiva 

una campagna che tu 

gli hai procurata inutilmente. 

Nella loro Terra di Bestie 

Famigliari, la luna 

è maestra d’anime che tu

hai modernizzato inutilmente. Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa e tu ascolta ciò che per grazia il figlio sa. Se egli poi non sorride 

è perchè la speranza per lui

non fu luce ma razionalità. 

E la luce del sentimento 

Dell’Africa, che d’improvviso 

spazza le Calabrie, sia un segno 

senza significato, valevole 

per i tempi futuri! Ecco:

tu smetterai di lottare 

per il salario e armerai 

la mano dei Calabresi.

Alì dagli Occhi Azzurri 

uno dei tanti figli di figli, 

scenderà da Algeri, su navi 

a vela e a remi. Saranno 

con lui migliaia di uomini 

coi corpicini e gli occhi 

di poveri cani dei padri

sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini,  e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, 

a milioni, vestiti di stracci 

asiatici, e di camicie americane. 

Subito i Calabresi diranno, 

come da malandrini a malandrini:

«Ecco i vecchi fratelli, 

coi figli e il pane e formaggio!»

Da Crotone o Palmi saliranno 

a Napoli, e da lì a Barcellona, 

a Salonicco e a Marsiglia, 

nelle Città della Malavita. 

Anime e angeli, topi e pidocchi, 

col germe della Storia Antica 

voleranno davanti alle willaye.

Essi sempre umili 

Essi sempre deboli 

essi sempre timidi 

essi sempre infimi 

essi sempre colpevoli 

essi sempre sudditi 

essi sempre piccoli,

essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,  essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,

essi che si costruirono 

leggi fuori dalla legge, 

essi che si adattarono 

a un mondo sotto il mondo 

essi che credettero 

in un Dio servo di Dio, 

essi che cantavano 

ai massacri dei re, 

essi che ballavano 

alle guerre borghesi, 

essi che pregavano 

alle lotte operaie...

E’ deponendo l’onestà 

delle religioni contadine, 

dimenticando l’onore 

della malavita, 

tradendo il candore 

dei popoli barbari, 

dietro ai loro Alì

dagli Occhi Azzurri - usciranno da sotto la terra per uccidere, usciranno dal fondo del mare per aggredire - scenderanno  dall’alto del cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di vivere, 

prima di giungere a Londra 

per insegnare a essere liberi, 

prima di giungere a New York, 

per insegnare come si è fratelli

- distruggeranno Roma 

e sulle sue rovine 

deporranno il germe 

della Storia Antica. 

Poi col Papa e ogni sacramento 

andranno su come zingari 

verso nord-ovest

con le bandiere rosse 

di Trotzky al vento...

(da Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 1996, pp. 488-493, 515-516)

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